Koral si racconta: “Ecco come sono diventata corista”

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Per chi se lo fosse perso, Koral nasce dalla passione di sei amici per il canto corale e per tutto quello che questo comporta: uscire dalla doccia e (possibilmente vestiti) trovare qualcun’altro con cui condividere lo stesso entusiasmo. A due anni dalla nascita ufficiale della nostra avventura abbiamo deciso di raccontarvi qualcosa di più su com’è nata quella passione, per farvi capire che è per questo che ci interessano le vostre storie: perché sono un po’ anche le nostre. Promettiamo di non tediarvi troppo, di evitare i “c’era una volta” e le foto con la prima pianola regalata al compimento di anni tre. Cominciamo!


A raccontare la prima storia sarò io, Letizia, curatrice di questo blog. Non per narcisismo eh, ma solo perché ho sempre il blog a portata di mano. Mi presento: sono, come tutto il resto del team, umbra di nascita e, come i 2/3 del team, milanese di adozione. Nella mia vita precedente, quella in cui non ero sposata con un ingegnere pentito, pianista, direttore di coro etc. e non ero mamma di un assai vivace bambino di un anno e mezzo, vivevo con i miei genitori e mia sorella in una zona centrale della tranquilla Perugia. Ed è proprio lì, all’età di 11 anni, che ho scoperto che la musica poteva essere bella. Avevo iniziato lo studio del pianoforte, privatamente, qualche anno prima, ma senza troppo entusiasmo: richiedeva troppo studio, troppa dedizione e per dei benefici che mi parevano piuttosto limitati (il terrore del saggio di fine anno poi li rendeva quasi nulli). Avevo mia sorella, musicalmente molto più dotata di me e con un grande orecchio, che mi accompagnava quando avevo voglia di cantare qualche canzone degli 883 o le colonne sonore dei cartoni animati, che altro mi serviva?

Questa è la mia scuola media, la Scuola Secondaria di Primo Grado "Ugo Foscolo". Siete fortunati perché non ho foto di me alle Medie da pubblicare.

Questa è la mia scuola media. Siete fortunati perché non ho foto di me all’epoca da pubblicare.

Quando sono approdata alla scuola media, in quel cataclisma di emozioni, ormoni, vestiti inguardabili e capelli senza un vero perché, l’ora di musica aveva attirato la mia attenzione e, da subito, avevo cominciato a viverla con grande impegno. Non era affatto, come molti potrebbero pensare, un’ora di dolce far niente, anzi! La nostra professoressa era decisamente esigente, tanto che quasi tutti temevano più le sue verifiche che quelle di matematica. E forse era proprio quel voler essere presa sul serio che mi portava a provare un misto di curiosità e riverenza. Ricordo come fosse ieri la prova d’ascolto che ci fece fare sui Pini di Roma di Ottorino Respighi. Un’epifania, per una ragazzina di 11 anni. Questo insieme allo studio delle scale, alla storia della musica, all’improvvisare brani a due voci, al provare a ritrovare ad orecchio le note di qualche melodia familiare. E all’immancabile flauto. So che per molti il flauto, quel misero flautino di plastica con lo scovolino verde, rappresenta un ricordo a dir poco infausto, ma per me invece è parte di una storia bellissima e di avventure felici.

Il flauto che avevamo in dotazione alle Medie. Chi dimentica è complice.

Il flauto che avevamo in dotazione alle Medie. Chi dimentica è complice.

Sull’onda dell’entusiasmo infatti avevo deciso, insieme ad alcuni impavidi compagni di classe (maschi e un po’ sfigati come me, benché uno di loro adesso sia il bassista dei FASK, forse qualche giovane lettore sa di chi parlo), di entrare a far parte dell’orchestra della scuola e, di conseguenza, del coro, diretto da un bizzarro signore argentino. Il repertorio era piuttosto vario, passavamo da Palestrina a Gershwin, da Libertango a O sole mio. Il prof di inglese veniva ogni tanto alle prove per correggerci la pronuncia, roba che a pensarci adesso sembra davvero pionieristica. Facevamo un sacco di concerti, in Umbria, nel Lazio, in Toscana e addirittura partecipammo ad uno scambio con una scuola musicale di Tubingen, città tedesca gemellata con Perugia. Inutile dire che il paragone era spesso inclemente: loro avevano flauti in legno di non so quanti tipi diversi, noi gli “zufoli” (come li chiamava mio padre quando mi rinchiudeva dall’altra parte di casa durante le mie esercitazioni) in plastica, loro un coro che provava quotidianamente per ore, noi invece un insieme di voci che cambiavano in base ai buchi da coprire. Questo però non ci impediva di fare tutto con grande serietà e impegno: la nostra professoressa curava tutto, dall’entrata in scena, agli spostamenti necessari ad ogni cambio di pezzo. Di quei giorni non posso dimenticare il brano con cui chiudemmo il concerto finale: La vita è bella, colonna sonora dell’omonimo film, musicata da Piovani. Mi sentivo così piena di orgoglio e di gioia che decisi che quell’esperienza non sarebbe finita mai. E così come regalo di fine anno scolastico chiesi ai miei un flauto dolce in legno di pero israeliano e un flauto contralto (si, alcuni eletti suonavano addirittura il contralto), marca Aulos mica robbetta.  Nel frattempo avevo insegnato tutti i brani corali a mia sorella che sicuramente ancora ricorda quando cantavamo “Suonatemi un balletto col mio amor voglio danzar”.

Eppure con il liceo tutto questo andò naturalmente perdendosi: cambiarono i compagni, gli impegni, la mole di studio. Nonostante nel mio liceo ci fosse un coro (e di tutto rispetto), non mi venne mai in mente di partecipare, probabilmente perché, nella mia stupidità di adolescente che crede che nulla nella vita possa cambiare, non ammettevo di toccare quel ricordo di felicità, volevo lasciarlo intatto. La delusione per la fine di quel momento magico fatto di cameratismo, complicità, risate, bellezza (insomma, tutto quello che ben conosce chi canta in un coro) non era stata semplice da metabolizzare. I frutti però c’erano e potevo contemplarli nella mia vita di giovane ragazza.

Sono passati molti anni prima che rimettessi mano agli spartiti e in vesti decisamente diverse. A Milano, una sera, insieme a mio marito e ai suoi amici del liceo, anche loro trasferiti per lavoro, decidemmo di andare a vedere Elisir d’amore, di Donizetti, in scena in un piccolo teatro vicino a La Scala. Tutti loro infatti condividevano una lunga militanza in cori universitari, di quelli che si ostinano a cantare brani d’Opera (“Sai che noia”, dicevo io). Ovviamente ero l’ignorante del gruppo, ma il fatto che nella locandina, trovata in metro, ci fosse il titolo dell’opera scritta su una bottiglia di Coca Cola mi aveva incuriosita. Nonostante fosse un riadattamento moderno, cosa che inizialmente ci lasciava abbastanza perplessi, eravamo andati con grandi aspettative.

Una delle scene di "L'elisir d'amore" nell'allestimento del 2015.

Una delle scene di “L’elisir d’amore” nell’allestimento del 2015.

E’ stata una grande sorpresa vedere il meraviglioso lavoro fatto dal giovane regista Gianmaria Aliverta, fondatore dell’associazione Voceallopera, che con grande maestria (e poco budget) aveva coinvolto studenti di conservatorio e coristi di lunga data, nell’operazione ardita di attualizzare l’Opera per renderla più vicina a tutti, soprattutto ai più giovani. Il punto non era solo l’uso di costumi e ambientazioni moderne, il punto era che finalmente chiunque assistesse allo spettacolo, poteva capire che quello che stava vedendo poteva dire qualcosa del mondo in cui oggi ci troviamo. Impressionati da quanto visto, abbiamo deciso di scrivere al registra (che oggi apre la stagione operistica del Teatro La Fenice, per dire) e di chiedergli di entrare a far parte del coro d’opera: mio marito, diplomato in conservatorio e direttore di coro, garantiva per la bontà delle nostre voci. E così ci siamo ritrovati a studiare Cavalleria Rusticana e poi Traviata, in un duplice allestimento. Inutile dire quanto sia stato emozionante riprendere a cantare, condividere lo studio, la preparazione, le prove, la trepidazione della prima, la commozione per il brano finale. Ed è proprio dalla gioia per essersi ritrovati, amici e coristi, che è nata Koral e tutti i progetti in cui speriamo di poter coinvolgere a breve i nostri lettori. E’ dal fascino irresistibile che esercita il bello in chiunque l’abbia sperimentato che è nata l’esigenza di raccontarlo a tutti. Ora capite perché vogliamo far cantare in coro tutto il mondo?

Cavalleria

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