Cantare, il rimedio più antico alla solitudine
Vi è mai capitato di sentirvi isolati nonostante foste in un luogo affollato, magari connessi ad una delle tante piattaforme social? Se si, potreste essere interessati ad un rimedio contro la solitudine che sembra funzionare ormai da secoli: il cantare in coro.
Una ricerca appena pubblicata dell’Università di Londra afferma infatti che cantare insieme genera sentimenti di connessione e inclusione. Inoltre, sembra che questo sia particolarmente vero per chi canta in cori in cui non conosce gran parte delle persone.
“L’idea che cantare insieme favorisca una sensazione di vicinanza – anche in contesti molto ampi in cui le persone non si conoscono – risulta coerente con le teorie evoluzionistiche che esaltano il ruolo della musica come strumento di collante sociale,” scrive Daniel Weinstein, membro del team di ricerca.
Uno degli scopi della ricerca, pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior, è infatti quello di dare conferma a tali ipotesi, o almeno trovare qualche evidenza che le renda plausibili. Gli studiosi si sono a lungo soffermati a vagliare i motivi per i quali gli essere umani hanno iniziato a fare musica, partendo addirittura da alcune ipotesi che ne legano la nascita a rituali di corteggiamento.
Quando cantiamo in un coro, a prescindere dalla sua ampiezza, il nostro corpo rilascia endorfine,”oppiacei naturali” capaci di alzare la nostra soglia del dolore.
Alcuni sostengono invece che probabilmente la musica si è sviluppata come un mezzo per rafforzare la coesione sociale: cantare insieme o essere coinvolti in un movimento ritmico di gruppo, incentiverebbe atteggiamenti di cooperazione.
Ma tali presupposti restano validi anche in caso di gruppi molto estesi? Weinstein e i suoi colleghi la ritengono una domanda cruciale in quanto la capacità di una tribù di cooperare con altre ha avuto un ruolo fondamentale nella sopravvivenza della nostra specie.
I ricercatori hanno sottolineato come i nostri antenati, principalmente dediti alla caccia e alla raccolta di cibo selvatico, si sarebbero “stagionalmente riuniti per creare dei veri e propri complessi musicali di centinaia di persone.” Queste assemblee consentivano “scambi di informazioni riguardo le risorse presenti in altre aree e incentivavano la creazioni di reti sociali di sostegno in caso di scarsità di provviste.”
“Le attività svolte in questi grandi raduni di breve durata includevano rituali di gruppo, in cui il canto e la danza avevano un ruolo primario” aggiungono ancora i ricercatori. “Si ritiene quindi che lo scopo fosse essenzialmente quello di creare e mantenere legami a livello macroscopico.”
Per validare questa ipotesi gli studiosi hanno costituito un gruppo musicale, il Popchoir, costituito da 10 piccoli cori, a loro volta composti da 20 fino a 80 persone, che si incontravano settimanalmente per provare insieme. Ovviamente non si scambiavano consigli sulla raccolta di cibo, ma, come i nostri avi, una o due volte l’anno tutti i piccoli gruppi si univano in un unico coro di alcune centinaia di persone.
I ricercatori hanno quindi coinvolto 133 coristi, di 6 dei 10 gruppi più piccoli, che hanno risposto, prima di ogni prova fatta con la propria piccola ensemble, ad alcune domande volte a valutare il loro sentimento di inclusione. La stessa domanda è stata poi rivolta prima e dopo le prove annuali a cori uniti a 80 coristi . Inoltre, 125 membri (45 di un singolo gruppo e 80 del coro congiunto) si sono resi disponibili ad effettuare un test relativo alla loro soglia del dolore, valutata prima e dopo ogni prova. Ad ognuno è stata fatta indossare la fascia per misurare la pressione che è poi stata gonfiata finché non la si riteneva troppo stretta. Si è quindi notato come la soglia del dolore fosse significativamente più alta dopo le prove, sia quando effettuate in piccoli gruppi che in un coro più ampio.
Da qui si è dedotto che cantare in coro fa sì che il nostro corpo rilasci endorfine, “oppiacei naturali”, indipendentemente dalla grandezza del gruppo in cui si canta. I ricercatori hanno inoltre notato come i coristi appartenenti ai vari sottogruppi manifestassero un legame più forte in quanto si incontravano settimanalmente invece che una o due volte l’anno come il coro congiunto. Allo stesso tempo però, i membri del coro più ampio, sperimentavano, dopo le prove, un incremento molto maggiore del senso di unità e di vicinanza all’altro rispetto ai cori più piccoli. Questo significa che “il sentimento di coesione generato dal cantare insieme, è molto più alto in gruppi più ampi in cui i componenti sono molto meno familiari tra loro.”
Si può quindi affermare che “fattori culturali, anche molto diversi tra loro, come gli inni nazionali, la musica religiosa, le parate della banda militare, generano tutti inclusione sociale tra persone che non necessariamente si conoscono di persona. Tale elemento potrebbe aver giocato un ruolo importante nell’evoluzione umana, permettendoci di aumentare in maniera consistente l’ampiezza delle comunità rispetto a quelle di altri primati.”
Sembrerebbe quindi che cantare insieme, spingendo un gran numero di persone a collaborare per un fine comune, abbia aiutato la specie umana a crescere e a prosperare fino a diventare una delle forze dominanti del pianeta. Questo potrebbe non essere un bene dal punto di vista delle altre specie, ma è sicuramente rilevante per noi, “homini sapienti” di oggi.
Se quindi sei alla ricerca di una scarica di adrenalina o di un più forte senso di connessione con le persone che ti circondano, prendi spunto dai nostri avi: trova un gruppo che condivida i tuoi stessi gusti musicali e comincia a cantare!
Findings è una rubrica giornaliera del Pacific Standard curata da Tom Jacobs, il quale si occupa di scovare, all’interno di riviste dedicate alla ricerca psicologica, nuove scoperte fatte sui comportamenti umani, dalle origini delle nostre convinzioni politiche alla diffusione delle attività creative. Qui l’articolo in lingua originale.